«Comandante Atlem, io
sono un Master Ingegnere e nella mia vita ho sempre cercato di costruire
“qualcosa”, di rendermi utile. Giunto alla mia veneranda età, ho capito che,
forse, ho solo buttato il mio tempo, che forse avrei dovuto fare scelte
diverse. Io… io non ho nulla lì “fuori”. Tutto ciò che mi trattiene è la mia
lealtà per l’Impero e l’Imperatore. Ho perso tutti coloro che amavo e non ho
saputo nemmeno generare dei semi che potessero crescere. Non mi è rimasto
niente. Sono venuto qui solo per capire come passare il tempo che mi rimane,
come spendere quanto il Dio Sole ha deciso di lasciarmi.»
Lo disse rapidamente,
con pochissime pause, gettando tutto ciò che pensava che non avrebbe mai
confessato. Abbassò lo sguardo e strinse le mani in grembo. Non avrebbe voluto
mostrarsi debole, ma, d’altronde, non aveva nulla da perdere e aveva la netta
sensazione che quell’uomo fosse venuto perché aveva avuto un sentore, una vaga
percezione.
«Quando
mio padre perì» gli rispose Atlem, cogliendo l’attenzione di Tommer «mi dissero
che in punto di morte pianse. Non lo aveva mai fatto, mai aveva rivelato o
esternato le sue emozioni. Mai. Eppure, in quel momento, quando io ero
distante, pianse. E lo fece per me, perché avrebbe voluto avermi accanto, darmi
il suo ultimo saluto, onorarmi, gratificarmi come non aveva mai fatto.
Della
mia famiglia rimango solo io: mia sorella[1] ha
disconosciuto mio padre quando si sposò con un rampollo della Famiglia Darglass
e credo che, nel profondo, odi anche me. Io sono come lei: non ho più nulla,
combatto per l’onore, per la gloria dell’Impero; perché è ciò che mi è stato
insegnato, perché è ciò che sono e che voglio essere.
Ho raccontato a
pochissime persone questi fatti e sinceramente non ho nemmeno idea se sto
facendo la cosa giusta, ma le sue parole… non sono nuove per me.»
Tommer osservò
quell’uomo con compassione. Si alzò, prese da uno scaffale due scodelle e un
boccale di legno, lo poggiò sul tavolo e, senza proferir parola, lo versò.
«Può farsi una breve e
innocua bevuta insieme a me, Comandante?»
«Penso che due sorsi
posso permettermeli.»
Fu
una notte concitata, tra racconti, vicissitudini, storie di vita, di eventi, di
persone, di luoghi, di guerra e di pace. Evitarono di ubriacarsi, ma fu con
sorpresa, per entrambi, che in quell’incontro trovarono una persona con cui
parlare senza troppi limiti.
Quando il cielo iniziò
a schiarirsi, il Comandante Atlem cominciò a congedarsi.
«È stato un… piacevole
quanto inusuale “colloquio”.»
«Anche per me,
Comandante.»
Il Master cercò di
accompagnare il soldato alla porta, ma quest’ultimo si voltò e con in volto
un’espressione pensierosa gli domandò:«Lei sarebbe interessato a spendere il
suo tempo qui in ricerche? Ovviamente in ambito militare.»
«Ricerche?»
«Esattamente. Le sembrerà
strano, forse anche un po’ sospetto, ma ho sempre trovato molto interessante,
nonché fondamentale, implementare sempre più a fondo la magia con le strategie
militari. Sarebbe interessato ad aiutarmi a esplorare simili ambiti?»
«Mi coglie di sorpresa,
Comandante Atlem. Per me… sarebbe intrigante. Mi domando, però: è possibile?
Non è necessaria qualche autorizzazione?»
«Non particolarmente.
Lei è un vecchio mago al fronte e le sue azioni credo che siano di ben poco
interesse. Sarei io a richiedere i materiali e tutto ciò che le potrebbe
occorrere, o comunque lo farebbe sotto la mia tutela. Inoltre, le concederei
alcune stanze al piano terra della caserma che sono inutilizzate da tempo.
Allora, le interessa?»
Fu titubante. Era
venuto lì per meditare, per riflettere. Imbarcarsi in ricerche simili, non era
il suo scopo. Davanti allo sguardo del Comandante, però, non seppe dire di no.
Capiva che stava semplicemente cercando di dargli un modo per non soffermarsi
troppo su pensieri nocivi, ma non era certo che quello fosse il miglior modo.
“Ohhh.
Falla finita, Tommer. Almeno per oggi, almeno per un po’, basta piangersi
addosso.”
«Credo che sarebbe molto interessante.»
Passarono dodici anni,
lunghi e ricchi di tentativi, prove, ma ci vollero quei dodici anni per
incontrare il ragazzo che avrebbe sconvolto nuovamente la sua vita e gli
avrebbe fatto finalmente comprendere quale fosse il suo più grande desiderio.
“«È
un piacere conoscerla. Io sono Master Etan e questo ragazzo è il mio
apprendista, Amer.»
Amer
si avvicinò velocemente e fece un breve inchino.
«È
un piacere conoscere entrambi. Io sono Master Tommer. È una gioia poter avere
due giovanotti come voi qui alla fortezza» disse il vecchio mago sorridendo.” [III
– Battaglia a Mitt, “L’Impero di Luce”]
Spesso solo due anime solitarie possono comprendersi, perché entrambe hanno sofferto di un male che non cagiona il corpo, ma lo spirito. E contro certi mali non vi sono trattamenti o medicine adatte.
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